In cucina trova la tavola ancora apparecchiata: il piatto piano poggiato a mo’ di coperchio a tener calda la cena, le posate allineate su un lato, i due bicchieri sistemati sull’altro, e più in là, la piccola brocca del vino di cristallo finto che riflette la luce al neon dell’ombrellino di ceramica bianca appeso al soffitto. – Zia Concè… – mormora Gaetano a fior di labbra, pervaso da un senso d’intimo sollievo, o conforto. Scostando un po’ il piatto, scopre la minestra ridotta a una poltiglia informe, la superficie compatta attraversata da tante piccole crepe. Fa per buttarla nella spazzatura, poi l’infila nel vano più basso del frigo, accanto alla frutta. – Domani si vede…
Nel silenzio immobile della casa, spegne la luce.
Muovendosi a tentoni, esce dalla cucina. Scorge il profilo fragile della zia adagiato sul lenzuolo di un bianco azzurrato, il respiro lieve. Socchiude piano la porta, s’avvia verso la sua camera. Lancia uno sguardo nella stanza del padre, che dorme supino, le gambe e le braccia aperte, penzolanti nel vuoto giù dal rettangolo del letto a una piazza. Scivola via nella sua stanza. Preme l’interruttore senza neanche doverlo cercare. Rimane per un attimo sulla soglia in contemplazione. – Tutto resuscitato pare… – Fa scorrere gli occhi sui contorni esatti delle cose nella luce che si spande uniforme dal centro esatto del soffitto. È ancora immerso in quella specie di stupore irragionevole, quando scorge sul letto una sacca rossa, sportiva, con in cima un biglietto: un mezzo foglio a righe di computisteria attraversato da una scritta rossa. La guarda come fosse una cosa capitata lì per caso, o per distrazione. Si avvicina. «Que-sto re-ga-lo te lo fa tuo pa-dre», sillaba, decifrando a fatica la grafia stentata e storta. Poi, nella riga di sotto, «Lo fazzo per te». In stampatello.
Seduto sul bordo del letto, ripiega il foglio, lo spinge in fondo a una delle tasche esterne della borsa. Adagia la sacca per terra. Spegne la luce.
Disteso nella penombra della stanza, se ne sta per un po’ a guardare quella forma bruna appena ravvivata da un sentore di rosso. Poi si decide, allunga la mano: tasta la trama della stoffa robusta, impermeabilizzata, le cuciture rifinite per bene, fatte per durare… Si gira, tenta di dormire. Tra le fessure degli occhi, scorge il muro infestato di ombre… alghe giganti che s’allungano sulla sua faccia, gli sciamano per tutto il corpo, lo tirano per poi mollarlo… Si drizza a sedere sul letto in preda a un’angoscia che lo spinge fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi su per le scale che s’avvitano fino al piano abusivo della veranda.
Tastando freneticamente i mattoni di tufo, cerca l’interruttore perso in qualche angolo del muro. Con le spalle contro la porta, inspira più aria che può nei polmoni e la libera piano, finché non sente il cuore allentare il ritmo, il sangue riprendere a fluire calmo.
Riluttante, si stacca dalla parete, va verso il computer sistemato in un angolo della scrivania e come immerso in una sua vita segreta, del tutto indifferente al disordine di libri e carte sparsi sul ripiano. Lo accende. Uno sfrigolio sintetico, un bip sincopato, d’arma spaziale, poi una specie vento, di calore elettromagnetico che gli invade le guance, mentre le pupille prendono a pulsare al ritmo dei dati d’avvio che si susseguono rapidi sullo sfondo cieco, come affiorando da un buco nero.
Prova un senso di liberazione quando davanti ai suoi occhi si spalanca lo schermo, il desktop azzurro punteggiato d’icone ordinate in una geometria rasserenante. Battendo rapido sui tasti, nel giro di qualche secondo è già immerso in quell’altrove aereo, dove andare e basta, scivolare sospinti da una frenesia, una voglia selvaggia di spingersi fin lì, anche lì, in quel sito dove le pupille s’incagliano, bloccando le dita sulla tastiera. Nell’home page, un’immagine che non si aspettava. Una foto di gruppo, del team di meccanici specializzati. Ci clicca sopra. L’ingrandisce. Scorge suo padre, uno che sembra proprio suo padre, seminascosto in seconda fila, anche lui in tuta nera bordata di giallo, il collo della maglia alto fin sotto il mento, le braccia conserte… un guerriero. Lo sguardo dritto all’obiettivo. Irriconoscibile quasi.
Batte l’indice e il medio sui tasti, chiude la pagina, il collegamento, il programma. Torna alla trasparenza azzurra del desktop che gli invade il viso. Si alza.
Ruotando piano la maniglia della porta a vetri, esce sulla terrazza. Abbassa gli occhi verso il caotico ammasso di tetti e cavi volanti e pensiline abusive, punteggiato di cisterne bluastre e grigie. Ne scorge una abbandonata proprio sotto la terrazza, su una copertura, qualche metro più in là: il bordo sfilacciato, le maglie d’amianto ridotte a una ragnatela inerte. – Eternit beviamo, – mormora a fior di labbra. Poi allunga lo sguardo verso il profilo nero del Calvario che si staglia in lontananza e incombe come un grosso dente aguzzo, sconciato in cima da un focolaio di carie. – Ma che terra è? Che paese è? Che gente siamo? – Scostandosi dal parapetto, scivola verso la scrivania. Svogliatamente si mette a scorrere le pagine del libro di Estimo lasciato aperto sul tavolo, la matita blu e rossa incastrata in mezzo. – E che dobbiamo stimare, – dice, con un sorriso amaro, poggiando la testa sulle pagine gonfie di sottolineature.
.
Suo padre lo trova così, con quelle labbra piegate appena in una smorfia, la testa sul ripiano del tavolo, immersa nel chiarore azzurro del video ancora acceso, le braccia abbandonate, penzolanti nel vuoto. – Tanì, – gli sussurra, toccandogli con una mano la spalla. Lui alza il capo, fa vagare lo sguardo intorno, lo ferma sui capelli scarmigliati e incredibilmente grigi del padre, sulla faccia pallida. – Comu fazzu… – biascica in quel suo dormiveglia, agitato. – Comu fazzu…
Suo padre gli poggia il palmo della mano sulla testa, coprendogliela fino alla nuca. Con due dita accarezza quel neo di sua madre cresciutogli chissà quando tra la radice dei capelli: – Va cùrcati, Tanì. Dormi… – Prendendolo delicatamente da sotto le ascelle, lo tira su.
↧
Di: Da SENZATERRA (Einaudi, «L’Arcipelago», 2008) pp.92-95
↧